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I rapporti tra Cristianesimo e psicoanalisi, rivisitati attraverso un’intervista a J. Kristeva

Dott. Umberto Parisella

Breve biografia di J.Kristeva: nata a Silven (Bulgaria) nel 1941, è una linguista, psicoanalista, filosofa e scrittrice. Negli anni ’60 e ’70 ha collaborato con intellettuali del calibro M. Foucault, R. Barthes, J. Derrida e P. Sollers con cui si sposò. Nel 1979 divenne psicoanalista dopo aver seguito i seminari di J.Lacan. Ha incrociato i saperi tra semiologia e psicoanalisi. Insegna semiologia alla State University of New York e all’università parigina Denis Diderot. Dirige il centro R. Barthes. Nel 2018 riceve la laurea magistralis honoris causa in “Traduzione specialistica e interpretariato di conferenza” presso la libreria universitaria di “Lingue e Comunicazione” IULM di Milano. E’ stata considerata una delle maggiori esponenti del femminismo francese insieme a S. De Beauvoir, H. Cixous, L. Irigaray.

Intervista del 16/3/2006 a J. Kristeva di C. Folscheid, pubblicata in “Paris de Notre Dame”, settimanale della diocesi di Parigi, in vista della conferenza di Quaresima, annunziata per il successivo 19 marzo. (I=Intervistatore; K=Kristeva).

(I) Secondo lei i cristiani cosa s’aspettano di sentire da lei sul tema della sofferenza? Cos’ha da dire una psicoanalista?
(K)…..Forse semplicemente una presenza. “Essere presente al dolore” come lo vivono a partire dalla loro fede…..La mia lettura di Cristo mi conduce ad un sogno: le vere alleanze, necessarie contro la barbarie in aumento, potrebbero essere strette non solo, e probabilmente non tanto tra cristianesimo e le altre religioni oggi tentate dall’integralismo, ma tra il cristianesimo e la visione della complessità umana alla quale io aderisco, derivata dal cristianesimo, benchè ormai distaccata da esso, e che coltiva l’ambizione di spiegare le strade rischiose della libertà…. ( Kristeva, “Bisogno di credere”, 2006, pag.114)

(I)Che cosa vuol dire soffrire?
(K) L’esperienza analitica e la mia vita personale mi hanno convinta del fatto che la felicità non è che un lutto della sofferenza…..I pazienti vengono a consultarmi per confidarmi sofferenze incommensurabili; prima di rendersi conto che non è possibile eleminare la sofferenza alla radice, ma la si può attraversare all’infinito: avviando nuovi legami, linguaggi, creatività, un altro rapporto con il tempo. Una sorta di rinascita, di serenità, di gioia. L’esilio che ho vissuto a 24 anni, è una prova dolorosa, anche se in apparenza è stata una “Integrazione riuscita”. La malattia neurologica di mio figlio mi ha avvicinato al mondo dell’handicap, ancora molto isolato, nella nostra Repubblica fondata sulla fraternità. A catturare il mio interesse è stato il genere del romanzo giallo, perché sono convinta, come Freud (che ha letto i gialli solo alla fine della sua vita), che la società sia fondata sul crimine. Di quale sofferenza stiamo parlando? Di quella dell’innamorato o dell’innamorata? Di quella del disoccupato? Del malato? Dell’handicappato? Della donna? Dello straniero? Del moribondo? Ognuna è incommensurabile e solo una parola, spero quella dell’analista, a volte quella dell’arte, riesce ad accostarsi alle loro verità. (Kristeva “Bisogno di credere”, 2006, pagg.115-116).

(I)Bisogna aver conosciuto la sofferenza per parlarne?
(K) Pretendere di non aver conosciuto la sofferenza equivale semplicemente a negarla. La vita psichica di noi esseri dotati di parola è il risultato di un lungo “lavoro negativo”: nascita, separazione, frustrazione, carenze varie, altrettanti varianti della sofferenza. E molte sofferenze fisiche sono inseparabili dal dolore psichico, sempre che quest’ultimo non le condizioni fin dall’inizio, o addirittura le aggravi. (Kristeva, “Bisogno di credere”, 2006, pag.116).

(I)La sofferenza non è ciò che più la induce a dubitare dell’esistenza di Dio?
(K) Certamente no, io non sono credente per ragioni filosofiche molto più complesse. Del resto, chiedere a Dio di essere un analgesico onnipotente non è già una sorta di nichilismo? Quest’esigenza riduce di per sé il divino ai piccoli casi dell’esistenza umana. ( Kristeva, “Bisogno di credere”, 2006, pag.116).

(I)Nel cristianesimo e nella psicoanalisi la sofferenza umana non ha lo stesso senso. Quali sono secondo lei le divergenze e i punti di contatto?
(K) Fin dall’antichità, la tradizione occidentale definisce la sofferenza in modo negativo, come una cessazione del piacere. Freud erediterà quest’approccio, quando attribuisce il disagio psichico e le sue somatizzazioni ai fatti della vita sessuale e all’impasse del desiderio. Completa però il suo approccio quando comincia ad analizzare gli stati melanconici e depressivi, e quando introduce nell’inconscio la nozione di pulsione di morte accanto al principio del piacere. La polisemia del termine “sofferenza”, provoca inevitabilmente sovrapposizioni tra i significati che gli vengono attribuiti dalla psicoanalisi e dal cristianesimo. Le differenze tra i due approcci sono ciò nondimeno considerevoli, e la principale risiede nel fatto che per la psicoanalisi la sofferenza psichica, lungi dall’essere un “valore”, è conseguenza della rimozione, della resistenza al piacere, del desiderio negativo di “non voler sapere”. Il cristianesimo, invece, inizia valorizzando il dolore come una strada obbligata per ottenere l’Amore del Padre; tuttavia lo esaurisce (il dolore) nella rappresentazione della gioia con la sublimazione (musica, pittura, letteratura); e lo “sessualizza” più o meno inconsciamente, con quello che in seguito verrà chiamato “sadomasochismo” della mortificazione o della penitenza. Eppure due punti in comune ci sono: il riconoscimento della sofferenza come parte integrante “dell’essere dotato di parola” e la “valorizzazione della lingua” quale strada maestra per attraversarla, per trarne sollievo (noi diciamo per la sua “ perlaborazione” e “sublimazione”). Il Concilio di Trento e poi l’arte barocca hanno sfruttato al massimo la tendenza propria del cristianesimo…destinata a rivoluzionare i tempi moderni: il cattolicesimo tridentino ha definitivamente tolto la sofferenza dalla sua posizione vittimista, ha sostituito la lamentazione con l’armonia dell’opera d’arte, l’ha trasformata in piacere. Né la sofferenza, né il piacere “possono dirsi direttamente”, afferma in sostanza l’arte post-tridentina: possono esprimersi solo con la trasposizione, lo spostamento, l’ellissi o la condensazione nella carne delle parole, dei suoni, delle immagini. Fino a ridere della sofferenza di sé, fino a desacralizzarla con il gesto stesso della rappresentazione, che la riconosce e la fa propria……(Kristeva, “Bisogno di credere”, 2006, pagg.116-117-118).

Da questo primo brano dell’intervista possiamo già scorgere un primo punto di contatto tra cristianesimo e psicoanalisi (forse il più significativo): il dolore psichico insito nella sofferenza umana, lungi dal rinchiudersi nell’angolo angusto del vittimismo che gode (sado)-masochisticamente del proprio sacrificio, può e deve dischiudersi verso l’Altro, trovando sfogo e respiro attraverso quel processo che conosciamo e che denominiamo “sublimazione”. L’elemento-guida che media il processo di sublimazione trasformando la sofferenza in gioia, non può che essere la parola-linguaggio di cui gli esseri umani sono dotati (credenti e non credenti); ma il fine di questa parola è quello di consegnarsi a quegli oggetti-meta sociali compatibili con l’etica culturale. Infatti, come sappiamo dal lascito freudiano, la sublimazione è l’unico meccanismo di difesa perfettamente riuscito che, salvando “capra e cavoli”, permette la scarica pulsionale verso scopi e fini sociali nobili di cui, come sottolineava Kristeva, le opere d’arte ne sono la più significativa espressione, ma non solo queste ( pensiamo allo sport, al volontariato sociale ed alla stessa religione). Cito alcuni brani significativi tratti da Freud “Psicoanalisi del genio”,1969).

“Le opere d’arte esercitano su di me un notevole effetto, particolarmente nel campo della letteratura e della scultura, meno spesso nella pittura. Per questo mi è capitato nella contemplazione di tali opere, di passare molto tempo davanti ad esse nel tentativo di conoscerle a modo mio, cioè di spiegare a me stesso a cosa fosse dovuto il loro effetto. Quando non posso fare questo, ad esempio con la musica, sono quasi del tutto incapace di provare alcun godimento” (Freud “Il Mosè di Michelangelo”,1914, in Freud “ Psicoanalisi del genio”, 1969, pag.235).

“La libido elude invece il destino della repressione perchè fin dal principio viene sublimata in curiosità e viene collegata al potente istinto di ricerca per rafforzarlo. Se pensiamo alla presenza in Leonardo dell’istinto dominante di ricerca e dell’atrofia della vita sessuale (che era limitata a quella che si definisce omosessualità ideale), saremo disposti a considerarlo un esemplare della nostra terza ipotesi. Il nocciolo della sua natura ed il suo segreto sembrerebbe risiedere nel fatto che egli riuscì, dopo che la sua curiosità era stata resa attiva durante l’infanzia al servizio degli interessi sessuali, a sublimare la maggior parte della sua libido in una brama di ricerca” (Freud “Un ricordo d’infanzia di Leonardo Da Vinci”, 1910, in Freud “Psicoanalisi del genio”,1969, pag.161)

E ancora:
“ Nella sua attività creativa, l’artista, come uomo, entrerebbe in contatto con l’inconscio (e non solo esattamente con il proprio inconscio personale), e lo esprimerebbe in sostanza d’arte, al di là delle barriere della censura e dei limiti imposti dalle resistenze morali” (Freud “ Deliri e sogni della Gradiva”, 1907, in Freud “Psicoanalisi del genio”, 1969, introduzione di F. Manieri, pag.11).

“ Il prodotto artistico si definirebbe allora come il risultato di una realizzazione oggettuale degli impulsi fondamentali e dei desideri dell’uomo, elaborata dentro “valori”. Questa realizzazione dei desiderata inconsci avverrebbe cioè attraverso oggetti che abbiano un più alto valore sociale e soddisfino esigenze e richieste socio-culturali elevate” (Freud “Psicoanalisi del genio”, 1969, introduzione di F. Manieri, pag.11).

“ Ne consegue che l’arte appare al filtro psicoanalitico come una delle condizioni psicodinamiche alternative (sublimazione) alla nevrosi e alle psicopatie, l’unica evoluzione non rimossa della libido perversa infantile, il suo “spiraglio sociale””. (Freud “Psicoanalisi del genio”, 1969, introduzione di F. Manieri, pag.28).

Riprendendo un primo passo all’inizio dell’intervista quando la Kristeva definisce la sofferenza come “essere presente al dolore”, quest’espressione si potrebbe tradurre come un rimanere fedeli al proprio dolore, o anche, inscriversi nel proprio dolore. Ma ogni dolore contiene ed è portatore di un desiderio recondito, implicito che non riesce a tradursi in discorso proprio perché bloccato dallo stesso dolore che lo frena e lo censura. Quindi iscriversi nel proprio dolore significa inscindibilmente anche essere inscritti nel proprio desiderio che attende tempi migliori per sublimarsi in qualcosa. Il codice del proprio desiderio è il codice della vita di ognuno; inscriversi in esso significa inscriversi nella vita che è di tutti. Proprio dal punto di vista del desiderio, vorrei prendere le distanze sia da Schopenhauer, che da Nietzsche. Dunque, Schopenhauer identifica la Volontà di vivere con il desiderio stesso (di vivere), affermando che seguire le smanie del desiderio significa subire lo smacco della frustrazione: o perché quel desiderio non si realizza, o perché ci costringe alla rincorsa nevrotica del desiderio successivo una volta esaudito il precedente. Quindi , sostiene che la salvezza dell’uomo consiste nel non-volere (desiderare) più niente, piegando la Volontà (Voluntas) in Nolontà (Noluntas), sottraendosi in tal modo ai capricci della Natura sovrana, di cui l’individuo è un umile servo inconsapevole. Tralasciando la criticabile scissione che lui pone tra la Natura umana e gli uomini che la costituiscono (come se la Natura esistesse astrattamente, a prescindere dai suoi esemplari e come se questi a loro volta non fossero portatori di una natura a loro immanente), Schopenhauer propone tre strade per affermare il principio di Nolontà: l’Arte, la morale della compassione, l’ascesi spirituale. Ora la domanda che pongo a voi e, idealmente, allo stesso Schopenhauer, le strade che lui propone per annullare la Volontà di vivere non rappresentano perfettamente un processo di sublimazione che lungi dal mortificare e annullare il desiderio (come lui vorrebbe), lo fanno invece ri-vivere in un altrove!? Potremmo concludere che Schopenhauer era un fautore/anticipatore del processo di sublimazione freudiano ma non lo sapeva?….forse…forse! Fatto è che il pessimismo radicale di cui si tinge la sua filosofia, sembra essere più apparente che reale, al contrario del pessimismo freudiano meno apparente e più sostanziale, ma anche più moderato, perché Freud qualche speranza la dà! Per concludere la notazione sull’apparente pessimismo/nichilismo di Schopenhauer, c’è anche da dire che, dalle biografie, risulta che lui fosse un uomo dotato di grande spirito, humor, ironia e amante della bella vita, grazie anche ad un cospicuo capitale ereditato dal padre che ha saputo ben amministrare. E adesso veniamo a Nietzsche. In “Così parlò Zarathustra”, Nietzsche annunziando la morte di Dio, auspica l’avvento dell’Oltre Uomo. Ma chi è l’Oltre Uomo? E’ colui che è attaccato ai valori della terra, che sa godere di tutti i piaceri/desideri materiali e carnali che la vita gli offre, nell’ottica di un godimento orgiastico secondo il culto del Dio Dioniso che vuole celebrare l’ebrezza della vita, cantando il suo inno. Ma la particolarità dell’Oltre Uomo nietzschiano è che vuole rimanere “superiore” a tutto ciò di cui gode, da qui la sua Volontà di Potenza. In pratica, un Io-ipertrofico onnipotente che mentre dà libero sfogo ai suoi desideri, ne è anche l’assoluto dominatore e tiranno. Per come la vedo io , l’Oltre Uomo di Nietzsche me lo fa assomigliare molto di più al padre primordiale dell’orda barbarica, di cui parlava Freud in “Totem e Tabù”, che gode di tutte le donne, esercita il potere di vita e di morte sui sudditi e sbarra la strada ai figli nell’accesso alla “funzione paterna”, di cui solo lui può e vuole essere l’interprete. Tale triste figura assimilabile a quella del dittatore che non è per niente estinta (come poteva pensare Freud in “Totem e Tabù”), rappresenta il godimento mortifero del desiderio; mortifero perché tale godimento avviene senza l’intermediazione del linguaggio che risulta esiliato da ogni processo di sublimazione. Sia Schopenhauer, sia Nietzsche, falliscono l’inscrizione nel codice del desiderio che è anche il codice del dolore, come i codici della Vita; il primo perché vorrebbe “mortificarlo” nichilisticamente; il secondo perché vorrebbe “sottometterlo” a sé, come se l’uomo potesse rappresentarsi secondo l’entità feticistica di un IO maniacalmente superbo, prescindendo dal nodo conflittuale tra dolore e desiderio, due fratelli inseparabili che pur litigando tra loro, vanno sempre a braccetto. Le loro filosofie si trovano agli antipodi, la dove ritroviamo gli stessi uomini: Schopenhauer, intellettuale colto, molto intelligente con la testa ben piantata sulle spalle; Nietzsche, una mente psichicamente labile che gli costò il ricovero in clinica psichiatrica. Ma torniamo all’intervista.

(I)Si dice spesso che i cristiani danno valore alla sofferenza, se ne compiacciono. Lei che ne pensa? Ad esempio, il testo delle Beatitudini: “Beati coloro che piangono”, lei lo intende come un elogio alla sofferenza?
(K) Questo testo ha il pregio di decolpevolizzare il dolore e può essere interpretato come una conquista della libertà umana. Tanto per cominciare le “Beatitudini” sottraggono la sofferenza al segreto della vergogna. Quando un depresso si concede di piangere sul lettino, lo psicoanalista capisce che il paziente si allontana dal suicidio. Resta comunque il fatto che la decolpevolizzazione dell’infelicità scade spesso a dolorismo compiaciuto o diventa addirittura uno strumento di ricatto. (Kristeva, “Il bisogno di credere”, 2006, pag.118)

(I)Secondo lei il cristianesimo ha rivoluzionato il modo di concepire e di accettare la sofferenza. In che cosa? Quali sono i suoi progressi e quali i limiti?
(I) In effetti il cristianesimo è l’unica religione che “dà del tu” alla sofferenza, che la fa propria….I limiti del soffrire cristiano? La compassione rischia di infantilizzare l’individuo che soffre, facendone un soggetto di cura, invece di incoraggiare in lui un soggetto politico….La compassione è impotente di fronte a quelle che io chiamo le “nuove malattie dell’anima”: il vandalismo, la tossicomania, le somatizzazioni gravi. Infine, la sofferenza in quanto violenza che ignora se stessa è spesso esplosa sottoforma di rituali mortiferi, quando non si è rovesciata in crudeltà vendicative, persecuzioni di eretici e guerre di religione sanguinarie. Le nuove varianti della sofferenza necessitano una delicatezza sempre più puntuale delle nostre interpretazioni e, di conseguenza, dei nostri modi di accompagnarle. Al contrario, la cultura catodica oggi sembra assai indifferente a questa preoccupazione. Preferisce far proprie forme degradate di compassione che, prive del pudore religioso con un sovrappiù di voyerismo, si pervertono in un diluvio di miserabilismo e di reality show….No, non dimentico che stiamo parlando del soffrire cristiano e dei suoi surrogati secolarizzati. Tuttavia, a differenza di Freud, io non dico che la religione è solo un’illusione e una fonte di nevrosi. E’ arrivato il momento di riconoscere, senza timore di far paura, né ai fedeli, né agli agnostici, che la storia del cristianesimo prepara l’umanesimo. Certo, l’umanesimo è in rottura col cristianesimo, ma a partire da esso….(Kristeva, “Il bisogno di credere”, 2006, pagg.119-120-121).

(I)A tratti si direbbe che certe parti del tuo testo avrebbero potuto essere scritte da un cristiano. Come reagisce a questa osservazione? Perché la sofferenza di Cristo la tocca a tal punto?
(K) La sua osservazione sarebbe piaciuta molto a mio padre. Uomo di fede ortodossa, prima di dedicarsi alla medicina aveva studiato teologia. E il cognome “Kristev” vuol dire “della croce”. Più seriamente, il Cristo è l’unica divinità che soffre e che muore prima di resuscitare. Possiamo preferirgli l’ebbrezza di Dioniso, come fa Nietzsche. Personalmente, ritengo che facendo del suo Dio un uomo di Dolore, il cristianesimo annuncia di aver scoperto che la depressione è una tappa indispensabile e decisiva per accedere al pensiero ( come dimostra la posizione depressiva del bambino, che prelude all’acquisizione del linguaggio). Ciò segnala anche che la sofferenza è l’opposto dell’esaltazione creativa (per esempio dell’artista)….C’era bisogno di interiorizzare la violenza sottoforma di sofferenza, di sondarne gli orrori e le delizie, per liberarla finalmente dalla passione e integrarla nell’”intelligenza amorevole”, nell’”amore intellettuale infinito”, con il quale Dio ama se stesso fino alla sua sofferenza a morte ( per riprendere la definizione del divino data da Spinoza). Vede, se cerchiamo di svelare i misteri del cristianesimo a partire dall’esperienza analitica, ma anche a partire dalla filosofia, dall’arte e dalla letteratura che molto spesso la precedono , ci sembra proprio che il Cristo conduca a Mozart: che il cristianesimo purifichi la sofferenza in gioia….il sacrificio si risolve in serenità, e ben presto in estasi….che dovrebbe far meditare, tra gli altri, i fanatici di Allah! (Kristeva, “Il bisogno di credere”, 2006, pagg.122-123)

(I)La psicoanalisi può spiegare la sofferenza?
(K) La psicoanalisi non spiega e non giudica nulla, si accontenta di trasformare. Si, succede di rado, ma succede: è un’arte, una vocazione per l’analista come per l’analizzando. Quest’alchimia presuppone che mi associ alla sofferenza dell’altro, che mi proietti in lui e che contemporaneamente me ne dissoci per interpretare il suo malessere diverso dal mio, e che solo così dia al sofferente divenuto analizzando un senso provvisorio, che gli permetterà di ricominciare daccapo. Questo scambio di transfert e controtransfert mi sembra essere la variante moderna del perdono, scriviamolo per-dono. Come il male subito o inflitto, la sofferenza non si è cancellata ma l’uno e l’altra fanno ormai parte della mia capacità di pensare e di condividere, e quindi di creare, Una sorta di ri-nascita. (Kristeva, “Il bisogno di credere, 2006, pag.123).

Veniamo con ciò al secondo punto di contatto tra cristianesimo e psicoanalisi (non meno importante), delineandone somiglianze e differenze. Dunque, sappiamo che la figura del figlio-uomo Cristo è consustanziale al Padre-Dio, sono la stessa persona: Cristo-Dio s’è incarnato Uomo per portare il Verbo dell’Amore, assumendo su di sè tutti i peccati del mondo attraverso il martirio della Passione che significa appunto Sofferenza. Ne consegue che la morte del figlio sulla croce segnala anche la morte di Dio (perlomeno per quel momento, ci sono varie discussioni tra i teologi cristiani a tal proposito, ma la fatidica frase: “Dio mio perché m’hai abbandonato”, risulta quanto mai esplicativa). Ma si sa, Cristo essendo anche Dio, dopo tre giorni risorge. Anche nell’ambito psicoanalitico la sofferenza umana non è solamente la sofferenza fisica del/nel corpo del figlio (uomo), ma anche la sofferenza psichica del/nel divino della mente (spirito, anima, Dio). Quell’uomo che incontra quel DIO che l’ha VOLUTO COSI’ COM’E’, cristianamente ri-sorge, o più laicamente ri-nasce, come diceva Kristeva nell’intervista, (socraticamente conoscere se stessi). A tal proposito, il rito dell’eucarestia (comunione), vale a dire introiettare il corpo di Cristo e bere il suo sangue, significa il ringraziamento del credente per la promessa/certezza della propria resurrezione; promessa fatta da Cristo a tutti coloro che credendo il lui, risorgeranno; (efxarestia= ringraziamento). Nella chiesa cristiano ortodossa (in parte anche in quella evangelica) il rito della eucarestia si dice kinonìa, (kinòs=comune), che vuol dire appunto essere, vivere un destino comune (com-unione) e si celebra senz’ostia ma tradizionalmente col pane e col vino. Sull’esempio di Cristo , la passione per un buon cristiano , non può esimersi dal diventare com-passione, cioè la capacità cristiana di con-divisione della sofferenza umana, proprio perché siamo tutti figli di quel Dio che per primo ha dato l’esempio: essere capaci di con-dividere la propria sofferenza con quella degli altri, evitando le tristi quanto inutili derive doloriste, vittimiste e sado-masochiste. Anche nello studio dello psicoanalista si con-divide la sofferenza, con una piccola ma fondamentale differenza rispetto alla reciproca com-passione tra cristiani. La com-passione in psicoanalisi non può e non deve essere intesa come con-divisione assolutamente egualitaria e paritetica, nel senso che il paziente dà la sua sofferenza allo psicoanalista, mentre lo psicoanalista dà la sua al paziente, secondo uno scambio perfettamente reciproco e paritetico. La con-divisione va (o dovrebbe) essere intesa nel senso che c’è una persona che” porta la sua sofferenza” (paziente) e la mette nelle mani di un altro “che se ne fa carico” (psicoanalista). Al di là della più o meno bravura dell’analista è questo tipo di rapporto/scambio che giustifica e legittima deontologicamente il pagamento della parcella. La legittimazione della parcella non è in riferimento né alla bravura dell’analista, né legato al raggiungimento del buon esito (sappiamo che non esistono garanzie in merito), altrimenti, seguendo questo ragionamento, l’analista non dovrebbe essere pagato nei casi di fallimento dell’analisi; casi che sono sempre esistiti e continuano ad esistere. Il significato umano che legittima il pagamento della parcella è da inquadrare semplicemente nell’assunzione di responsabilità della sofferenza dell’altro” che rappresenta anche il dovere professionale dell’analista. Nel caso contrario, di uno scambio perfettamente reciproco e paritetico (come quello tra amici), non si capirebbe più perché il paziente dovrebbe pagare tale parcella; parcella che invece paga, a volte anche profumatamente. Sappiamo, purtroppo, l’esistenza di casi (riportati anche dalla bibliografia scientifica) in cui il terapeuta e/o analista racconta le sue disgrazie e ammorbando il paziente con i suoi problemi, finisce per strumentalizzarlo; mi risulta che qualcuno piange in seduta, magari legittimando quest’atto volendosi porre come specchio della sofferenza dell’altro. Intendiamoci, la sofferenza è di tutti! Come tutti anche Il terapeuta/analista ha tutto il diritto di soffrire, si tratta solo di individuare i giusti contesti, tutto qua. Concluderei con un passo molto avvincente di Kristeva:

“ Così dunque, inserendo la sofferenza come elemento interno al legame amoroso con il Padre che ama e, di conseguenza, con gli stessi esseri umani, il cristianesimo non si limita ad erotizzare il malessere (fa anche questo), destina la sofferenza alla con-divisione, il che vuol dire che la destina a un pensiero indissolubile dall’immaginario amoroso. Non esiste atto d’amore in grado di consolare la sofferenza, se non è preceduto dalla parola, dall’immaginazione, dal transfert/controtransfert tra il consolato e il consolante. E’ ciò che il cristianesimo cerca di fare, quando riconosce questo tendere (questa versione) disperato verso il Padre Ideale che è la sofferenza psichica, e che aggrava ogni altra sofferenza; è quello che il cristianesimo cerca di fare soprattutto quando trasforma questa père-versione in creatività, in sublimazione, in arte di vivere”. (Kristeva, “Bisogno di credere”, 2006, pagg. 138-139).

BIBLIOGRAFIA

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S.FREUD “Il Mosè di Michelangelo”,1914, in “Psicoanalisi del genio”, Newton Compton, Roma,1969
S.FREUD “Un ricordo d’infanzia di Leonardo Da Vinci”, in “ Psicoanalisi del genio”, Newton Compton, Roma, 1969
S. FREUD “Deliri e sogni della Gradiva”, in “ Psicoanalisi del genio”, Newton Compton, Roma, 1969
S. FREUD “Totem e Tabù”, 1912-13
J.KRISTEVA “Bisogno di credere”, Donzelli, Roma, 2006
A. SCHOPENHAUER “Il mondo come volontà e rappresentazione”,1819
F. NIETZSCHE “ Cosi parlò Zarathustra”, 1883-85